La tempesta di sabbia si era alzata all’improvviso.
Adam entrò nella baracca e chiuse il mondo fuori, ma sapeva che era solo
questione di tempo prima che il deserto venisse a bussare per reclamare ciò che
gli spettava: la sua vita.
Ansimando dalla fatica, con le spalle contro il muro e l’orecchio teso per
sentire il loro arrivo, prese il telefono satellitare. Quella telefonata poteva
cambiare il suo destino?
Si rispose di no; ma era l’unica possibilità che aveva. Mentre cercava un
numero che non selezionava da troppo tempo, il rumore di una brusca frenata
gli bloccò il dito sul tasto della chiamata. Si avvicinò alla finestra e sbirciò
fuori. La sabbia vorticava intorno alla baracca, impedendogli di contare quanti
fossero. Come minimo erano in quattro e, anche se non riusciva a vederli, era
certo che fossero armati. Si chiese se insieme a quegli uomini ci fosse anche lei.
Poi, come se il deserto avesse udito quella domanda, uno squarcio si aprì nella
tempesta; un paio di occhi, di un azzurro glaciale, puntavano dritti verso la
baracca.
Lo sguardo di Adam scivolò dalla finestra al telefono satellitare.
“Sappiamo che sei lì dentro. - La voce della donna era penetrante quasi
quanto il suo sguardo. – Non voglio farti del male. Sono tua amica, lo sai, ma
non ti conviene farmi arrabbiare. Sai cosa voglio. Dammelo e lui dimenticherà
che hai provato a tradirlo.”
Adam notò delle ombre che si muovevano davanti alla finestra. La baracca
era circondata. Non aveva più scampo.
“Allora, cosa pensi di fare? Esci con le buone e mi consegni ciò che voglio,
o devo strapparlo dalle fredde mani di un cadavere?”
Adam chiuse gli occhi. La vita gli corse davanti con la stessa velocità di un
battito di ciglia. Trent’anni, in meno di un secondo. Rivide i suoi genitori, i suoi
amici, i compagni del college e le ragazze con cui aveva fatto sesso. Niente
amori.
Nella sua vita non c’era stato spazio per un sentimento tanto forte e altrettanto
fugace. No, aveva dedicato tutta la sua giovane vita alla ricerca della verità.
Riaprì gli occhi, sorridendo mentre pensava all’assurda ironia di quel momento:
aveva scoperto il luogo in cui avrebbe trovato tutte le risposte che cercava e
come raggiungerlo, ma non l’avrebbe mai visto con i suoi occhi. Un sospiro
carico di frustrazione e di rabbia accompagnò quella certezza, a cui se ne
aggiunse un’altra: tra meno di un minuto sarebbero entrati nella baracca e lo
avrebbero catturato. Avrebbe trascorso qualche ora in agonia, torturato da quella
strega bionda, fino a quando non avrebbe confessato tutto ciò che lei voleva
sapere. E, alla fine, sarebbe morto.
Si chiese se il pacco che aveva spedito, tre giorni prima, fosse già arrivato a
destinazione. Sollevò le spalle, scuotendo la testa. Non l’avrebbe mai saputo.
“Mi stai facendo arrabbiare, Adam. E tu sai cosa succede quando mi
arrabbio. Ti do ancora trenta secondi. Poi, se non uscirai di tua spontanea
volontà, verremo a prenderti.”
Per un istante, Adam pensò di uscire dalla baracca e di arrendersi, ma anche
se si fosse consegnato a lei, sapeva che ormai era troppo tardi. Aveva tradito il
deserto. Aveva tradito gli Dei. Avrebbe portato il loro segreto nell’oltretomba;
ma, grazie al suo sacrificio qualcun altro avrebbe rivelato la verità.
Non aveva tempo di telefonare. Con le dita sudate e tremanti di paura, cercò
il nome della persona a cui aveva inviato il pacco. Quando trovò “Bruce
Coleman”, lo selezionò e digitò un messaggio. Poi, dopo aver fissato lo
schermo per qualche secondo, lo inviò.
“Il tempo è scaduto, Adam. – La voce della donna si era fatta più forte e più
tagliente. Era fuori dalla porta. – Devo dire che, in fondo, sono felice della tua
scelta. Stai dimostrando di essere un vero uomo. Quasi quasi mi dispiace per
ciò che sto per farti.”
Adam si passò il dorso della mano sugli occhi.
Doveva rimanere lucido ancora per pochi istanti.
Cercò un secondo nome nella rubrica; quando lo trovò, sorrise. Anche se non
si parlavano da anni, voleva un bene immenso a suo fratello.
“Spero che tu possa perdonarmi, Mark.” Disse, dopo aver selezionato il
nome dell’unica persona che avrebbe potuto salvarlo se solo fosse stato meno
testardo e orgoglioso. Per quello, ormai, era troppo tardi, ma non era troppo
tardi per inviare il messaggio con le coordinate geografiche. Per tutti sarebbero
stati solo un’incomprensibile serie di numeri. Per tutti, ma non per il miglior
agente dei servizi segreti britannici. Digitò la serie di numeri e inviò il
messaggio. Poi, prese la pistola.
“Non sei degna di conoscere la verità. Né tu, né tantomeno il burattinaio che
ti manovra.” Gridò, solo per guadagnare qualche altro secondo, il tempo
necessario per sostituire alla paura il coraggio per portare a termine il suo piano.
“Devi solo dire grazie a lui se sei arrivato a un passo dal traguardo, Adam.”
Mentre sentiva quelle parole sparò al cellulare, mandandolo in frantumi.
“Sfonda la porta.” Ordinò la donna.
Un secondo sparo riecheggiò in mezzo alla tempesta. Il proiettile fracassò la
serratura. La donna diede un calcio alla porta ed entrò per prima, seguita da due
uomini. Quello alla sua sinistra era alto, con i capelli rasati e l’aria strafottente.
Quello alla sua destra era un colosso dalla pelle dello stesso nero di una notte
senza stelle; indossavano entrambi una mimetica ed erano armati con fucili
d’assalto.
“Tempo scaduto.” Disse lei.
“Lo so.” Ribatté Adam, fissandola dritta in quei glaciali occhi azzurri. Poi,
dopo averle mostrato il dito medio, si puntò la pistola sotto al mento e premette
il grilletto.
***
Londra, quartier generale dell’MI6
Il cellulare trillò con un suono che non sentiva da anni. Se il suo non fosse
stato l’unico telefono in quella stanza, Mark non avrebbe capito che gli era
appena arrivato un messaggio.
Guardò l’ora. La mezzanotte era passata da un pezzo. Allungò un braccio e
prese il cellulare. Il suo numero ce l’avevano in pochi, ma solo una persona era
collegata a quella suoneria.
Suo fratello Adam.
Ripensò all’ultima volta in cui si erano visti, in una sera d’estate, a casa dei
loro genitori. Si era presentato con un pacchetto, avvolto in una luccicante carta
dorata.
“Sei ancora in tempo a cambiare idea.” Gli aveva detto, mentre gli
consegnava il regalo di compleanno come se fosse stato un corriere di una ditta
di spedizioni e non il fratello maggiore di un uomo che stava per partire per
l’ennesima spedizione archeologica nel cuore dell’Iraq.
“È il mio destino, Mark. - Aveva risposto Adam, mentre scartava il
pacchetto. – Non avresti dovuto farmi un regalo.”
“Non è un regalo.”
Quando Adam aprì la scatola, comprese il significato di quelle parole.
“Una pistola? – Disse. – Un regalo degno di un agente segreto.”
“Ti ripeto. Non è un regalo. Sei ancora in tempo a cambiare idea. In caso
contrario, dove andrai potrebbe servirti.”
“Lo so, ma non lo farò.”
“Le cose cambiano di continuo, laggiù. Dammi retta. Non devi dimostrare
niente a nessuno.”
“Io devo avere delle risposte.” Ribatté Adam, cercando di reggere lo sguardo
severo del fratello maggiore.
“Risposte a cosa? A delle folli teorie di un professore americano…”
“Bruce Coleman. – Adam gli completò la frase. – Si chiama Bruce Coleman.
E le sue teorie non sono affatto folli. Se solo potessi dedicarmi cinque minuti
del tuo tempo te le spiegherei e sono convinto che…”
“Sono un agente segreto. - Lo zittì Mark. – Il mio tempo lo impiego a
proteggere vite e non lo spreco di certo per ascoltare quattro cazzate su antiche
divinità o robe del genere.”
“Antichi Astronauti. - Lo corresse Adam. - Le teorie di Coleman si basano
su…”
“Non m’importa su cosa si basano le teorie di un vecchio pazzo! Quello che
mi importa è sapere che stai bene e che, soprattutto, sei vivo. Te lo dico
un’ultima volta: cambia idea e resta a Londra. Hai un lavoro che adori, al
British Museum. Resta qui. Te lo dico per il tuo bene.”
Adam richiuse la scatola. – Non mi servirà. – Disse, ripassandogliela.
“Tienila. – Disse Mark. – Sarò molto felice, se non la userai mai. Ma dubito
che accadrà.”
Se n’era andato dopo aver salutato i loro genitori, senza assaggiare la torta
alle mele che sua madre aveva cucinato. Quella era stata l’ultima volta che
l’aveva visto.
Aprì il messaggio, digitò la serie di numeri sulla tastiera del computer e
subito dopo, sullo schermo, comparve una mappa su cui era indicato un punto
imprecisato dell’Iraq, non molto distante da Mossul, il quartiere generale
dell’Isis.
“In che razza di casino ti sei messo, fratello?” Disse, mentre componeva il
numero da cui era arrivato il messaggio. Quando sentì la voce metallica
preregistrata di un operatore, capì che non c’era più tempo da perdere. Posò il
suo cellulare e prese quello criptato, che usava solo in caso di emergenza. Sopra
c’erano solo quattro numeri. Dopo aver selezionato l’unico che poteva fare al
caso suo, inviò un messaggio in codice, con allegate le coordinate geografiche
che aveva ricevuto e la fotografia di suo fratello, a cui aggiunse una frase che
non concedeva spazio ad alcun dubbio: Ti prego! Aiutalo!”
Poi si alzò e iniziò a camminare nervosamente per la stanza, con lo sguardo
fisso sullo schermo, dove lampeggiava il luogo dove, quasi certamente, si
trovava suo fratello. Avrebbe voluto correre da lui, ma sapeva che sarebbe
arrivato troppo tardi.
Il messaggio di risposta non tardò ad arrivare. Conteneva solo due lettere,
ma erano proprio quelle che voleva leggere: OK!
Si sedette di nuovo davanti al computer, e anche se non aveva
l’autorizzazione, si collegò a uno dei satelliti dell’MI6. Subito dopo digitò la
serie di numeri e ingrandì l’immagine satellitare più che poteva, ma non trovò
altro che una gola che tagliava in due quella porzione di deserto roccioso.
“Sono nelle tue mani, Trevor.” Disse, fissando intensamente il punto dove,
molto presto, sarebbero comparsi dei soldati dell’esercito britannico.
***
Quando Bruce Coleman aprì il pacco che gli era arrivato, con posta
prioritaria, tramite l’ambasciata britannica a Baghdad, si rese subito conto di
quanto importante fosse il suo contenuto.
“Ce l’hai fatta, Adam.” Disse, ripensando al messaggio ricevuto tre giorni
prima. Da quel momento aveva cercato di contattarlo, senza riuscirci. Aveva
pensato di rivolgersi alla polizia, ma Adam era stato molto chiaro al proposito:
“Non mi cerchi. Non chieda l’aiuto di nessuno. Non si fidi di nessuno. Addio,
professore. Grazie a lei mi sono sentito finalmente vivo.”
Coleman rilesse ancora una volta il messaggio, chiedendosi se avesse fatto
bene a seguire le istruzioni che aveva ricevuto. Poi, si sedette davanti alla
finestra e sollevò la tavoletta di argilla, con le lacrime che gli rigavano il volto.
“Addio, Adam.”
Arrestai l'auto sul ciglio della strada innevata.
Avrei dovuto scendere, ma il dolore iniziava a essere insopportabile. Mi
sembrava di avere la testa nella morsa di una tenaglia che, a ogni mio respiro,
stringeva ancora di più la sua morsa.
Sbuffai, scuotendo la testa mentre tiravo fuori, dalle tasche del giubbotto, un
blister trasparente e un pacchetto di sigarette.
Agitai il primo, quasi con rabbia. A prima vista, la manciata di pillole rosse
al suo interno, mi ricordavano i confetti che mia nonna mi infilava in bocca per
farmi stare zitto; la sola differenza era che, quelle nel blister, non erano al
sapore di ciliegia.
Una nuova fitta, più forte delle precedenti, mi fece strizzare gli occhi.
Quando li riaprì, avevo già due pillole nella mano sinistra.
“La malattia si abituerà alla cura. Quando succederà, queste pillole non
saranno altro che un placebo.”
Le parole del professor Mears mi rimbombarono in testa, come se la
gigantesca pallina di un flipper stesse sbattendo contro quel poco di cervello
sano che mi rimaneva.
Guardai l'orologio, senza riuscire a ricordare quando le avessi prese l’ultima
volta. Ormai aprire quell’involucro di plastica trasparente era diventato un gesto
naturale come soffiarmi il naso o lavarmi i denti. Di una cosa, però, ero certo:
quelle pillole avevano solamente più il potere di nausearmi.
Lanciai il blister nel retro dell'abitacolo e affondai tre dita dentro il pacchetto
di sigarette. Avevo iniziato a fumare da sei mesi e, ancora adesso, quando ne
accendevo una, mi guardavo attorno come se avessi paura di farmi beccare dai
miei genitori. Appoggiai la testa contro il sedile e tirai un paio di boccate,
cercando di capire cosa ci fosse di piacevole in quel gesto.
Mi diedi ancora una volta la stessa risposta: niente!
“Sei qui per lavorare, detective.” Mi dissi, mentre osservavo il refolo di
fumo che saliva verso il tettuccio della macchina, come se fosse una ragnatela.
Davanti a me, una fila di luci illuminava a giorno il greto del fiume Great Ouse.
Aprii la portiera, sollevando lo sguardo verso il cielo. Grossi fiocchi di neve
scendevano fitti, trasportati da un vento gelido che rendeva quella zona della
brughiera simile a una foresta del circolo polare artico. Sollevai il bavero del
giubbotto e, con gli scarponcini che sprofondavano in quelle nivee sabbie
mobili, mi avvicinai al dirupo. Sul ciglio un gruppo di uomini, tutti vestiti nella
medesima maniera, stava osservando l'alacre lavoro di una gru dei pompieri. Mi
fermai accanto a quello più alto e robusto, l'unico che non indossava il copri
berretto impermeabile.
“Che mi prenda un colpo! - Disse, voltandosi verso di me. - Sei davvero tu?”
“Così sembrerebbe, Seamus.”
Mi affacciai sul dirupo, imitando il gesto delle persone attorno a me.
“Cosa abbiamo?”
“Un incidente d'auto. - Mi fissò circospetto, squadrando prima la sigaretta e
poi la mia faccia, soffermandosi sulla sottile peluria che mi circondava la bocca.
- Non sapevo che fumassi.”
Avevo conosciuto Seamus O'Leary il primo giorno in cui ero entrato a far
parte della gloriosa famiglia di Scotland Yard e, per anni, avevamo lavorato
insieme. Cosa dovevo rispondergli?
Che avevo iniziato a fumare dopo aver scoperto di avere una macchia nera
nel bel mezzo del cervello, che si allargava ogni giorno di più? Oppure che,
giusto un anno fa, avevo perso la donna che sarebbe dovuta diventare mia
moglie?
Mi limitai a sollevare le spalle, evitando di dirgli che avevo anche iniziato a
bere.
“Perché sei qui?” Mi chiese, con quel suo inconfondibile accento irlandese,
sollevando anch'egli le spalle robuste.
“Perché non sono ancora morto, diavolo d'un irlandese.” Pensai.
“Intendevo dire...” - Continuò, interpretando lo sguardo interrogativo che era
comparso sulla mia faccia dopo la sua domanda. - ... cosa ci fa qui un detective
dell’omicidi?”
“Me lo sto chiedendo anch'io.”
“Normale routine. - Risposi, senza dirgli che il mio superiore, l’ispettore
capo Alexandra Ricci, mi aveva spedito lì pur di non avermi tra le palle. -
Allora, come è successo?”
“L'auto... - riprese Seamus, dopo essersi scrollato la neve dal berretto
- ...andava di certo a velocità sostenuta. Il guidatore deve aver perso il controllo
in fondo alla curva...” - indicò il punto dove adesso c'era la mia macchina. - ...e
il ghiaccio ha fatto il resto. Un bel volo, non credi?”
Guardai di nuovo il baratro.
“Un contadino passava di qui e ha notato del fumo salire dal greto. Ha
chiamato prima i pompieri e poi la polizia locale. E loro hanno contattato noi.”
La gru issò la carcassa dell'auto, appoggiando le lamiere contorte non molto
distante da dove ci trovavamo.
Una seconda fitta mi piegò le ginocchia. Ne avevo subite altre molto più
forti, ma quella era giunta inaspettata: era la prima volta che venivo colto da un
attacco così violento subito dopo aver preso le pillole.
“Un placebo.” Sussurrai, con le labbra ancora serrate dal dolore.
“Come hai detto?”
Guardai Seamus con la coda dell'occhio.
“Non ho detto niente.”
“Ti senti bene?”
“Sì.” Mentii, raddrizzando la schiena mentre il vento mi soffiava il fumo
della sigaretta dritto in faccia.
“Se lo dici tu...” Continuò Seamus, avvicinandosi all'informe massa
metallica carbonizzata. Infilò la testa nel finestrino rotto, facendo attenzione a
non tagliarsi con i pezzi di vetro che sporgevano. “Un solo corpo. - Urlò, come
se volesse risvegliare la figura accartocciata contro il cruscotto. - È messo
davvero male. Il fuoco ne ha divorato la pelle. Credo che l'unico modo di
risalire al nome di questo sventurato sia quello di controllare la targa dell'auto.
Non vieni a dare un'occhiata?”
Si voltò verso di me. Ero immobile, paralizzato da un'acuta forma di
necrofobia, ovvero la paura di vedere un cadavere. Avevo scoperto di soffrirne
il primo giorno che ne vidi uno. Da quel momento erano trascorsi oltre dieci
anni e ancora adesso, dopo averne visti a dozzine, mi provocavano ancora la
stessa reazione.
“I documenti sono tutti andati. - Continuò Seamus. - L'auto deve aver
bruciato per un bel pezzo. Dovresti vedere la faccia di questo tizio.”
Mentre parlava, un conato di vomito mi risalì lungo l'esofago. Non avevo
idea se era l'effetto della malattia o il pensiero di vedere un corpo carbonizzato.
Sputai la sigaretta, insieme a un po' di bile mista a del sangue. Mentre
osservavo quell'intruglio svanire sotto i fiocchi di neve, un campanello
d'allarme iniziò a tintinnarmi nelle orecchie.
“Cristo santo, detective, sei messo davvero male. Tieni, pulisciti la bocca. -
Disse Seamus, passandomi un fazzoletto. - Whisky e tè caldo. Noi irlandesi ci
curiamo così. - Poi mi sorrise. - Più whisky che tè, logicamente.”
Ricambiai a fatica quel sorriso. Credo di essere l'unico inglese a odiare il tè.
“E smetti di fumare. Quella roba uccide, sai?”
Lo fissai. con gli occhi gonfi e arrossati dal dolore. Il male alla testa si
mischiava a quello nello stomaco: un mix esplosivo che rischiava di farmi finire
sull'ambulanza insieme all'uomo che era bruciato nella sua Mercedes.
“Fidati, vecchio mio; fumare è l'ultimo dei miei problemi!”